sabato 16 febbraio 2008

Figli di Mishakal

Un vento leggero e profumato di fiori faceva suonare i campanelli appesi alle finestre nelle celle dei sacerdoti.

Nessun altro rumore si udiva risuonare nelle ampie sale del tempio in quel mattino assolato di primavera: persino le rondini, impegnate a costruire i nidi, volavano silenziose.

Sembrava che niente o nessuno, a parte l’acqua che cadeva goccia a goccia nella vasca centrale, osasse rompere il silenzio, perché “qualcosa” stava accadendo, qualcosa per la quale tutte le creature avevano rispetto.
-Vieni qui, Lea, avvicinati. – Sussurrò Paern Maergoth, Maestro di Rituali del tempio delle stelle di Mishakal, nella capitale del caldo regno del Kuhr.

La sua mano tremava forte mentre la stendeva verso l’elfa accennando con le dita lunghe e ossute un gesto di richiamo, ma le mille rughe del suo viso d’ebano disegnavano un sorriso che emanava luce.

Gli occhi grigi come il ghiaccio di Lea smisero di fissare il pavimento con aria triste per guizzare in direzione del letto dove giaceva il corpo stanco del sacerdote. Con i modi vezzosi tipici della sua razza spostò i capelli neri dal viso e si fece vicino, raccogliendo amorevolmente la mano tremante che la chiamava.
-Maestro, non vi affaticate... – disse lei con voce dolce, mentre gli carezzava il capo.

-Non ti preoccupare, Leadril, figlia mia: Mishakal mi deve un po’di clemenza per averla servita tutta la vita e preserverà dalle braccia di Chemosh il mio corpo, prima che io abbia finito di salutarvi! –Esclamò Paern, trai tremiti della morte e quelli di una risata.

Il suo volto era sereno.

Un nomade del Kuhr alto e magro, con indosso una veste rossa ricamata di rune, versò l’acqua da una brocca e porse al vecchio una tazza, aiutandolo a bere .

Il suo volto era segnato dalle lacrime che sembravano averlo solcato per alcuni giorni e i suoi occhi emanavano una rassegnata tristezza.

–Yader, figliolo, ti prego di far allontanare gli altri: – Sussurrò il sacerdote all’uomo mentre il suo volto si fece serio– Devo rivelarvi qualcosa, prima di riposare in eterno: qualcosa che posso confidare solo ai miei figli. –

L’uomo con la veste rossa si accosto al più vicino dei molti sacerdoti raccolti in preghiera attorno al capezzale del Maestro e gli sussurò poche parole all’orecchio.

Egli si voltò verso di lui e fece un cenno d’assenso, poi si rivolse agli altri ed in breve Paern restò solo con Lea e Yader.

Con fatica il maestro si sorresse sulle braccia tremanti per sedersi, poi mise le mani sulle spalle dei due ragazzi e li guardò con aria grave, soffermandosi su Lea: – Figlia mia, è soprattutto a te che il mio cuore si rivolge – disse dopo aver preso fiato – Tu non lo ricordi, perché eri ancora una bambina, ma tua madre si rifugiò qui per qualche mese, prima di partire per il viaggio dal quale non fece ritorno. –

Tossì.
-Mia Madre?!Dunque non sono stata abbandonata alla ruota del tempio... – Trasalì Leadril sgranando gli occhi. Lo stesso stupore balenò negli occhi di Yader.

-No, Lea, tua madre non ti avrebbe mai abbandonato: lei ha rischiato la sua vita per salvarti.

A quel tempo ero giovane ed erravo per le terre di Ansalon offrendo i miei servigi ai bisognosi.

La incontrai tra le montagne vicino a Tarsis, spaurita come un uccellino e determinata come una tigre: correva a piedi nella pioggia, guardandosi indietro, con un fagotto avvolto nel suo mantello ... sembrava scappare e quasi mi sbattè addosso.

Gli dei vollero che capitasse sulla mia strada e che i suoi oscuri inseguitori incrociassero lo sguardo di Mishakal: pochi minuti dopo il nostro incontro, il terreno tremò per l’avvicinarsi di una dozzina di cavalli.

Su quelle cavalcature bardate da guerra, cavalieri avvolti da mantelli e cappucci neri inseguivano in silenzio, a spade sguainate tua madre e te, allora in fasce. – a queste parole le sopracciglia di Yader si aggrottarono in un espressione che faceva intendere l’aver intuito qualcosa, ma il vecchio non vi fece caso, avvolto dai ricordi e dalle emozioni.
Non sapevo chi fossero, ma non esitai un attimo a sbarrargli la strada ed essi furono costretti ad arretrare davanti al potere della Dea. – Il volto del vecchio si contrasse in una smorfia di disprezzo – E fu allora che, dal fondo delle loro file, si fece avanti un individuo in tutto simile agli altri, ma con in pugno un bastone d’argento, sormontato da una coda di scorpione nera. Non potevo vederlo in volto, ma lessi lostesso nei suoi occhi il disprezzo che nutriva per me.
Lo sentii mormorare, ebbi il tempo solo per pregare Mishakal di proteggermi, ma fui comunque investito da un gelo mortale.

Mentre cadevo a terra, vidi con l’ultimo sguardo le insegne stellate della Legione svettare dietro di loro, più in alto sulla collina, e capii che la Dea della Luce mi aveva ascoltato.

Paern ebbe un accesso di tosse più forte degli altri e l’uomo e l’elfa, istintivamente lo sorressero premurosi. Il nomade porse di nuovo al vecchio la tazza con l’acqua che egli afferrò convulso versandone gran parte a terra.
Non ho più molto tempo...– Disse rantolando e scostando la tazza da se – Lasciatemi finire: Tua madre, Leadril, mi rivelò che stava scappando da tuo padre.

Anche se non mi volle mai rivelare la sua identità, mi disse che era un membro importante della società di Qualinesti, del quale aveva scoperto cose che lo avrebbero reso un reietto.

Doveva aver capito di essere stato scoperto e così aveva organizzato un falso rapimento per liberarsi di lei, di te e ... di tuo fratello maggiore.

Driadeen, questo era il suo nome, era però riuscita a fuggire insieme a te sfruttando un dono della sua famiglia, un oggetto potente, che però ella aveva molte remore ad usare.

Le suggerii di seguirmi al tempio e di rifugiarsi lì, dove nessuno l’avrebbe trovata. Acconsentì e quattro Legionari accettarono di scortarci.

È così, che sei arrivata qui, Leadril...

Ma Driadreen non poteva riposare in pace: La ossessionava il pensiero di tuo fratello Ashel, che aveva dovuto lasciare nelle mani dei suoi carcerieri... sentiva che era vivo, diceva, e non poteva accettare di abbandonarlo.

Così convinse un sacerdote più anziano di me e due cavalieri della spada, in pellegrinaggio al tempio, a seguirla nel tentativo di tornare là a cercare il figlio.

Io ero troppo giovane per andare con loro e tua madre stessa reputò che l’impresa fosse troppo pericolosa per me, ma mi diede un compito: quello di crescerti se lei non fosse tornata.

E non tornò ne lei ne nessun altro. –

Le lacrime scendevano lente, ora sul volto del vecchio sacerdote.

–So, che un giorno tuo padre incrocierà nuovamente la tua strada, Leadril... sii pronta per quel momento. –Paern sorrise di un sorriso triste, prendendo il mento di Lea con la mano, un sorriso ricambiato dall’elfa, turbata da quel racconto inaspettato – Yader, figlio mio – Disse rivolgendosi al nomade – Considero questa ragazza come carne della mia carne, e so che anche tu gli sei legato come ad una sorella. Ti chiedo, in mia memoria, di essere al suo fianco quando te lo chiederà, qualunque sia il suo destino.

La tua strada è diversa dalla mia e dalla sua – Tossì – ma il tuo avanzare sui sentieri della magia mi rende fiero di te, perché so che non dimentichi che gli Dei ti sono vicini. –

Il nomade annui aggrottando le sopracciglia. Paern tossì forte.

– Venite qui, più vicino – Disse portandosi i visi dei due contro il petto e rivolgendo lo sguardo in alto – Mishakal, luce di Krinn, proteggi i passi di questi miei figli per le strade del mondo, polverose di male. – Poi, lentamente, gli occhi di Paern Maergoth, Maestro di Rituali del tempio delle stelle di Mishakal, si chiusero e la sua testa si abbasso.

Le rondini ricominciarono a stridere.

giovedì 31 gennaio 2008

Partenza dal monte Nonimporta

– ...Se elettrizziamo con cautela una marmitta di oro-iridio da ottantadue pugni e cinque piombi piena fino all’orlo d’acqua distillata magicamente inerte e la versiamo tramite una cannula tubulare nella gola di un’oca bianca delle regioni ghiacciate del sud tramite una macchina– carrucola del tipo nanico alternato, facendo attenzione a coordinare ogni starnazzo con l’oscillazione di un pendolo d’argento fissato a...–
Uli tentava invano di tenere almeno un’occhio aperto, alternando faticosamente di tanto in tanto il sollevamento della palpebra destra con quello della sinistra, in una strenua lotta contro il sonno.
Lo sforzo impegnato faceva sembrare quella fatica simile al sollevamento di due pesanti ponti levatoi e spesso, dopo una progressiva inesorabile picchiata verso il basso, la sua testa scattava in posizione verticale e i suoi enormi e profondi occhi azzurri si spalancavano nel tentativo di mantenere l’attenzione alle noiosissime lezioni di Ingegneria meccanoanimale dell’ing.prof. R.J.T. Molossalenomatikosus.
– alla coda della suddetta oca, preparata all’evento con una dieta di... – il professore stava mimando la posizione dell’oca e della sua coda, facendo diversi passi indietro con lo stile inconfondibile dell’animale, quando i suoi calcoli sulla lunghezza della pedana della cattedra fallirono ed egli ruzzolò con una capriola poco elegante rimanendo avviluppato nel suo ampio mantello, con un “Huap!” che rovinava di netto il suo applombe da saggio professore.
– Che gli inferi turbinanti di sterco vortichino di sopra di sotto e tutt’intorno alla madre incauta e idiota che ha partorito quell’inutilità vivente dell’architetto incapace che ha progettato questo deposito di liquami che chiamano aula!!!!!!Ma posso rovinare le mie giornate per colpa di un chicco di miglio che quel degenere mezzo cane si ostina a chiamare cervello!?!?!?–
Mentre il professore continuava ad imprecare, l’aula era scoppiata in un riso convulso e tutti gli studenti erano impegnati in un chiacchericcio allegro e scherzoso.
Tutti tranne Uli, che, recuperata di botto l’attenzione stava annotando ora per filo e per segno tutte le parole di Molossalenomatikosus, intingendo spesso la sua penna nel calamaio con aria raggiante e soddisfatta.
– Mastro professore? – chiese Uli appropinquandosi a Molossalenomatikosus che, rialzatosi, stava ora dignitosamente spolverandosi il mantello con brevi colpetti della mano sinistra.
– Ehm, può ripetere? Ho perso l’ultimo concetto... –
Ah, eh, eh... in effetti, signorina, mi sono fatto un po’ prendere dalla rabbia – Disse il professore, lusingato da quell’interesse, mai visto nei suoi studenti ­– Uhm, dunque...dove eravamo rimasti? Ah, sì! Preparata all’evento con una dieta di semi di... –
No, no...Egregio: l’ultimo concetto...proprio l’ultimo... –
Ma è questo, mia cara...l’oca preparata con una diet... –
Beh, veramente stava parlando di “cervelli come chicchi di miglio” e di “degenere mezzo...” “mezzo” cosa professore? ­– intervenì la gnoma interrompendolo e cercando la parola con lo schiocco ripetuto delle dita.
Il professore divento di un rosso peperone arrosto e la sua espressione di ferocia trattenuta lo faceva sembrare come un bollitore per l’acqua tenuto troppo sul fuoco.
Uli venne spedita a casa e, dopo che i genitori dovettero sopportare la predica del consiglio dei professori, dovette sopportare la predica del padre e soprattutto della madre che, per sfortuna della gnoma, faceva parte della corporazione dei filosofi e le snocciolò per giorni concetti del tipo
Anche l’ingeneria meccano-animale ha una sua importanza fondamentale nel continuum formativo di un giovane evolutivamente sano dal punto di vista spirituale, sempre ammetendo di considerare lo spirito come un concetto e non come un’astrazione impropria e non verificabile e quindi decisamente ...–
Solo il nonno Homolivellus, detto Holo, un vecchio gnomo viaggiatore dalle mille avventure, la difendeva:
­– “il cerco della vita”! ­– Diceva agitando un dito lungo e bitorzoluto, scrutando tutti con aria ammonitrice con l’occhio destro stretto in una smorfia – Quello sì che è importante, non le sciocchezze fanatiche di quel vecchio rimbecillito di “Molo”! – E poi ,rivolgendosi ad Ognyanimus, padre di Uli, con aria irritata continuava – E tu! Tu, buono a nulla! Hai abbandonato ormai “il cerco” per dedicarti a quella stupida passione per i metalli, (roba da nani!) ed ormai sei troppo vecchio per combinare qualcosa!!! La ragazza, vedi, è una di famiglia, una che ci tiene, non come te!!! ­–
E qui cominciava sempre una terribile litigata.
Chi conosce gli gnomi del Monte Nonimporta sa che gli scontri verbali di questa razza sono veramente insostenibili anche per gli spettatori: considerato il fatto che essi hanno la facoltà di ascoltare e parlare nello stesso momento e che discutono ad una velocità doppia degli altri umanoidi, replicano prima che l’altro abbia finito di parlare, con il risultato di una terribile assordante ed ipnotica cacofonia di parole.
Quello che mandava più in bestia la Madre di Uli era però il fatto che durante questi accesi contrasti, la figlia se ne stesse lì, con l’aria concentrata e la lingua di sbieco tra le labbra, ad annotare scrupolosamente tutti gli eventi della litigata.
Una sera Uli ed il nonno rimasero a casa insieme perché i genitori dovevano partecipare ad un convegno dal titolo “I metalli possono imparare a leggere?” e fu lì che davanti al fuoco scoppiettante e dopo aver ingerito una certa quantità di “liquore ai funghi di Nonna Goberta e dei suoi aiutanti che non sappiamo chi sono ma sicuramente sono bravi distillatori” Holo decise che era “il momento”.
Il nonno, con gli occhi tondi lucidi di lacrime, tiro fuori una pila di mezzo metro di fogli ingialliti e slabbrati, tenuti insieme da due nastri di seta rossa incrociati e uniti insieme in un fiocco.Li guardò con aria affettuosa e li accarezzò come si fa con un cucciolo.
Ecco... ­– esordì mentre Uli lo guardava con aria interrogativa – Questo è il lavoro di una vita:anni e anni di duro sacrificio. La cedo a te, visto che tuo padre gli ha fatto prendere la muffa senza aggiungere più di due o tre capitoli ­–
Ma, nonno io devo ancora stud...­– Cercò di dire dubbiosa la giovane gnoma
Credo che una vacanza di studi ti farà bene e servirà a me per far capire ai tuoi quali sono le tue reali aspirazioni e a quel vecchio babbeo di “Molo” che anche se fa il professore è sempre lo stesso individuo che molto tempo fà si pisciava addosso davanti alle ragazzine ­­­–
Si pisciava addos...? ­–sbalordì Uli
Andrai dove ogni gnomo della famiglia dovrebbe andare per affinare i suoi studi sull’energia dell’imprecazione e dell’offesa: andrai a Kendermore! ­– Disse Holo interrompendola ancora con aria solenne
A Kendermore?!? Ah, fico! I kender sono quelli alle cui offese no resis... ­–
Lì ho un amica... ­– continuò il nonno assumendo un aria sognante ­e guardando un punto imprecisato del soffitto – Eh, quante ne abbiamo passate insieme... la sua voce soave ha accompagnato i periodi più belli della mia vita e tutte le mie avventure­. Un canto come quello di una sirena, o era di un arpia? O forse di una silfide? No, no le silfidi non cantano, vero?...allora poteva essere di...–
Uli aveva lasciato il nonno alle sue fantasticherie e stava curiosando trai fogli sollevandone i lembi con cura senza slegare i nastri.

Il nonno non scherzava affatto: Uli era impegnata in complicati sogni pieni di oche dei ghiacci, professori che se la fanno addosso e fogli ingialliti che volavano da tutte le parti, quando la voce di Holo, ancora in pigiama e con il cappello da notte con il pon-pon la sveglio, ed egli apparve sulla soglia della camera, illuminato da un lumicino di candela che teneva in mano.
Andiamo, - disse sottovoce guardandosi intorno circospetto– vestiti, ti ho preparato tutto per la partenza: Tuo cugino Stanko ti accompagnerà fino alla base del Monte Nonimporta, al cerchio di pietre. Lì troverai un vecchio amico che mi ha promesso di accompagnarti fino da Sillian...non te l’ho detto? È questo il nome della mia amica.-
Uli, completamente stordita ed ancora avvolta nel sonno, stava cercando con poco successo di coordinare lentamente i movimenti senza aprire gli occhi ed era rimasta incastrata con la testa dentro una manica della tunica che il nonno le aveva preparato.
Saltellando nel disperato tentativo di liberarsi, infilò una pantofola, l’altra la mancò, si avvicinò al lavabo e cercò a tastoni la brocca dell’acqua.
Finalmente si sfilò la camicia e la sistemò, ma il nonno dovette scuoterla un paio di volte perché non si addormentasse di nuovo in piedi davanti al necessaire.
Faticosamente raccolse le sue cose, controllò sommariamente di aver preso tutto il necessario e si fece trascinare giù per le scale.
Il nonno le diede un forte intenso abbraccio e poi la spinse verso la galleria, dove Stanko la stava aspettando – Rendimi fiero di te! – Disse con le lacrime agli occhi – Io ti penserò sempre... Ti farò avere mie notizie a Kendermore.-
Ciao cugina Uli – Salutò Stanko, accompagnando le sue parole a bocca piena con mugolii di soddifazione – vuoi un dolcetto? Sono squisiti...- disse porgendo alla gnoma una mano piena di appiccicosi e zuccherosi canditi, mentre con l’altra continuava ad abbuffarsi, attingendo da un sacco che teneva sotto il braccio grassoccio.
Yahwn...mene uno!- disse Uli sbadigliando ed afferando un grosso candito arancione.
Stanko stava portando uno strano carretto a mano che sembrava avanzare da solo con un complicato sistema di oscillatori e leve, sul quale era già sistemato tutto il bagaglio della gnoma e si incammino per i vicoli.
I loro passi leggeri giunsero finalmente all’esterno e Uli vide, seduto lì al cerchio di pietre, un vecchio vestito di una tunica di velluto rossa, i cui severi occhi grigio ghiaccio fiammeggiarono nella sua direzione sotto le folte sopracciglia color della neve.
Il mago, perché l’aspetto faceva pensare ad Uli che no potesse essere altro che questo, aveva una pelle grinzosa ed abbronzata ed era completamente rasato e calvo, fatta eccezione per due ciuffi di capelli che spuntavano come ali di colomba intorno alle orecchie.

martedì 29 gennaio 2008

Gemelli... un classico ;)

Nella foresta di Elmwood la vita stava esplodendo da sotto la neve in macchie di marroni e verdi dalle mille tonalità.
Grunwald l’orbo si voltò attirato da qualcosa e guardò oltre i vapori del suo respiro, soffermandosi appoggiato al suo arco.
Con un tonfo sordo posò sulla veranda della sua casa le lepri che aveva cacciato e allungò lo sguardo ergendosi in tutta la sua enorme altezza.
Sotto i suoi folti baffi bianchi cominciò a nascondersi un sorriso.
Entrò e preparò una tisana d’erbe.
-Vieni avanti, mia adoratissima amica - Disse pochi minuti dopo ad alta voce senza voltarsi, mentre versava la tisana in due tazze di legno.
La porta socchiusa si aprì lentamente ed una figura avvolta in un candido mantello scivolo dentro appoggiata ad un lungo bastone coperto di rune.
Mi stupisci sempre, Grun, come sapevi che stavo arrivando?­- Domandò mentre una folta chioma di capelli neri le scendeva sulle spalle, liberata dal cappuccio . Lui si voltò sorridendo e porse la tazza alla donna senza parlare.
Lei raccolse il recipiente con tutte e due le mani, confortandosi del calore che emanava e sorseggiò lentamente.
Per qualche minuto ci fu un placido e rilassato silenzio e i due sorbirono la bevanda sedendo l’uno di fronte all’altro.
Dove sono i miei ragazzi?-chiese lei, soffiando lentamente sui vapori dell’infuso
Nella foresta, Enid, come quasi sempre... – Rispose Grunwald con un tono rassegnato ed ironico – loro sono troppo assorti nelle loro passioni per aver notato il tuo arrivo.-
Mh, ecco il difetto di affidare i tuoi figli ad un ranger! Non dovrebbero studiare, invece di giocare con gli animali?- incalzò lei, fingendo di essere stizzita. Grun scosse la testa con un espressione di divertita disapprovazione.
C’è altro oltre che la carta nel mondo, sai? I tuoi ragazzi studiano, lo fanno ogni giorno – Affermò indicando una libreria stracolma di volumi – Ma le loro attitudini vanno anche oltre... anzi, a proposito di questo aspettavo una tua visita per parlarti:- La donna allungò le braccia sul tavolo per farsi più vicina e guardò il ranger con rinnovata attenzione dei suoi grandi occhi verdi, aspettando che continuasse.
Abbiamo visto mille avventure assieme e quando mi hai chiesto di accudire i tuoi figli e di aiutarti a crescerli lontani dai problemi della loro condizione di mezzosangue e più seguiti di quanto non avessero permesso i tuoi incarichi presso il Consiglio, ho onorato la nostra amicizia con piacere. Ma il nostro accordo prevedeva che restassero qui fino a che non fossero stati abbastanza grandi da badare a se stessi.
Bene, credo che sia arrivato il momento che prendano le loro strade.-
Ma sono troppo giovani, Grun, ed io...- Intervenne Enid.
Lascia che ti spieghi- La interruppe il ranger – Credo che da questo momento educare i tuoi figli sia fuori della mia portata: Vedi questo bauletto? Ecco, qui Jarel, tuo figlio, tiene i suoi scritti: prende appunti e fa disegni su tutto quello che vede...- Enid lo guardò con un espressione di ovvietà - Beh? Direi che è normale...- disse la maga
È chiuso...- Continuò Grun facendo pressione sul coperchio come per aprirlo.
Sono ragazzi, Grun, ma hanno diritto ai loro spazi personali...- rispose lei
È chiuso ma non ha ne lucchetti ne serrature...Enid!!!- Esclamò il ranger concitatamente.
Enid tacque.
-Non ho finito: sai chi è nella foresta con il tuoi ragazzi?! Un branco di lupi neri!!! –
Enid trasalì.
– Ma non ti preoccupare, - Continuò il ranger – Tua figlia è il loro capobranco.-
- Capisco...- Disse Enid con aria preoccupata.
Il volto di Grun si fece vicino a quello della donna.
- Il fratello mi ha confidato in segreto che Jael ha un amico “albero” nel profondo del bosco, ci parla, ogni tanto... e lui le insegna delle cose...pensi anche tu quello che penso io? – disse, abbassando la voce.
- I druidi l’hanno notata – Annui la maga.
- Penso che sia giunto il momento per Jarel di venire con te e continuare seriamente i suoi studi, e per Jael di affrontare la sua natura-
- Credo che non ci sia alternativa. Prenderò con me Jarel e cercherò questo “amico albero” di mia figlia per capire con chi ha a che fare...-


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Il sole era alto sulla radura e da lontano Enid vide Jarel accovacciato sotto un albero, con in mano un pezzo di carbone appuntito ed una pergamena, indicare un grande corvo alla sorella.
Jael annuì e con un gesto aggraziato della mano chiamò l’uccello, che si posò sul suo polso.
Il ragazzo allungo la mano verso le ali del volatile, ma la ritrasse, ammonito dal suo becco minaccioso, finché la sorella non calmò l’animale carezzandolo, ed egli potè osservarne la forma delle piume per disegnarle.
Tutto intorno a loro, i lupi stava giocando o riposandosi, come se i due mezzelfi fossero parte del branco.
Era incredibile quanto fossero simili, nonostante fossero maschio e femmina.
-Jael, Jarel, aex tha mirieth! Eova!- Gridò Enid Brightblade in Silvanesti – Mane aex elvin…-
Gli sguardi dei gemelli si incontrarono per qualche secondo, poi i due scattarono di corsa su per la collina, seguiti dai lupi.
Jael, più veloce del fratello, abbracciò la madre con un salto, mandadola quasi a terra; il giovane mezzelfo fermò la sua corsa ed esitò cercando l’attenzione della madre, che subito lo tirò a se.
Allora, miei cari... avete fatto amicizia, vedo - Disse indicando i lupi, che stavano tutto attorno con la voce rotta leggermente dall’apprensione.
- È Jael: lei attira tutte le bestie del bosco, chissà perché... – disse Jarel in tono ironico. Lei lo squadrò con uno sguardo di biasimo – Non c’è niente di male ad essere un animale... scribacchino rachitico! – rispose.
Bene, smettetela di mordervi e statemi a sentire: - Li interruppe la maga, prendendoli per mano e invitandoli a sedere su delle grosse pietre. Si sedettero incrociando le gambe e scrutando la madre con la stessa, identica espressione perplessa, mentre i loro lunghi capelli rossi fiammeggiavano al sole.
Jarel, ti piacerebbe studiare nelle biblioteche della capitale? –
Certo che mi piacerebbe!- rispose il ragazzo con gli occhi che brillavano - Grun mi ha detto che ci sono pareti alte dieci uomini coperte di libri e che i sacerdoti di Gilean ti guidano trai corridoi seguendo il filo di un gomitolo, come in un labirinto. –
Enid sorrise – Sì, mio caro... è quasi così... –
Ti immagini, Jael? Andremo alla capitale! – esclamo il ragazzo. La mezzelfa fece per rispondere qualcosa, con un’espressione perplessa sul volto, ma la madre la interruppe
Jael non verrà con noi, ragazzo mio... – Jarel assunse di colpo un aria di disappunto e girò lo sguardo, prima verso la sorella, e poi di nuovo verso la madre.
Perché non... ? Allora io... ma perché? Io non me ne vado senza Jael! – affermò il ragazzo con un aria al tempo stesso confusa e sicura, quasi parlando a se stesso.
Jael, - chiese la madre senza curarsi di lui – Dimmi dove incontri il tuo amico albero... – Jael si voltò furiosa verso il fratello, che alzò le spalle come a discolparsi, poi si rivolse alla madre. – a sud, oltre il cerchio di pietre: c’è un frassino gigante con degli strani segni sopra... –
Bene, andrò da lui – Disse la madre incamminandosi.
Ma, madre... – Cerco di intervenire la ragazza – Non credo... – Ma Enid compì un agile gesto nell’aria ed una porta di luce la lasciò passare per un luogo ignoto.
Jarel sbarrò gli occhi pieno di stupore e di ammirazione e restò attonito i pochi secondi che permisero alla sorella di distanziarlo in corsa di parecchi metri, poi la segui.
Andarono a sud, verso il luogo descritto alla madre e, dopo pochi minuti di cammino, scorsero qualcosa di inquietante: in quella direzione, le nubi si stavano addensando, scure e minacciose ed un vento tremendo cominciò a soffiare.
Di colpo diversi fulmini squarciarono il plumbeo colore dell’aria, con un fragore spaventoso.
I gemelli esitarono sulla sommità di un collina, osservando la tempesta, poi, improvvisamente, i lupi che li accerchiavano ulularono tutti insieme e si lanciarno in corsa nella direzione del grande albero.
Jael, temendo per la vita della madre, fece per scattare, ma il fratello la fermo, tendendola per un braccio.
No! – gli disse con aria sicura – Non interferire: Nostra madre sa quello che fa. -
Guardava il cielo sopra la foresta, cogliendo segni che Jael non poteva vedere ed il suo viso battuto dalla pioggia sembrava tranquillo.
Dopo qualche minuto, così come era venuta, la tempesta si placò ed il sole tornò a splendere.
Poco dopo la figura di Enid comparve da dietro gli alberi, circondata dai lupi: le sue vesti erano lacere e bruciate ed i capelli scarmigliati, ma sorrideva.
- Il Druido ti terrà con sè – disse in silvanesti, rivolta alla ragazza. – Da lui sarai istruita . Tu invece verrai con me alla capitale e sarai allievo di Tobras Finn, e della sua scuola -
I gemelli si tenevano stretti per mano e tremavano di emozione e di paura, molte furono le lacrime versate da entrambi al momento della separazione, ma il destino li chiamava a strade diverse.
- Questa è sempre casa tua, Jarel – disse Grunwald, asciugandosi i baffi dalle lacrime che scendevano copiose – torna qui quando vuoi –
E Jarel lo fece spesso nel periodo che seguì: quando aveva qualche giorno di riposo dai suoi studi si recava sovente nella “sua” foresta a trovare la sorella e lei altrettanto spesso lo svegliava, nella notte, tirando sassi alla finestra della minuscola casetta in centro che la madre gli aveva procurato.
Jael non vide mai il druido e non ne seppe mai il nome: le parlava attraverso gli alberi, le insegnava i segreti della natura e lei lo chiamava semplicemente Maestro Frassino. A lui sembrava piacere.
Jarel invece imparò subito ad apprezzare gli agi e la socialità viziosa della vita cittadina: Tramite la scuola di Tobras Finn, un Vesti Rosse che dedicava parte del suo tempo ad istruire i delfini di famiglie del consiglio, egli conobbe alcuni coetanei e ragazzi più giovani che lo istruirono su alcune cose “importanti” come le locande cittadine e l’uso della pipa, abitudine che nonostante il disappunto di Madama Enid, divenne un vizio inestinguibile.

Artha Mael, l'elfo che scelse il mare.

La sabbia sferzava il suo viso come la frusta di un sadico domatore, ma Artha la Lince rimaneva lì in piedi, stringendo solo di più gli occhi quando il deserto gli sferrava una scudisciata più impietosa delle altre.
Alzava la testa come per scorgere, oltre quell’orizzonte monotono di dune infinite, qualcosa che si trovava lontano, più ad est, e che il sole all’alba gli indicava tutte le mattine da ormai troppo tempo, come per ricordagli che stava sbagliando direzione: si stava allontanando da un amico con il quale per anni aveva condiviso avventure,viaggi, paure, libertà, al quale doveva la vita e che aveva tentato più volte di portargliela via.
– Ti manca molto, vero?–
Disse una voce cristallina ed acuta cercando con fatica di vincere il forte sibilo del vento da sotto una tenda da campo improvvisata.
Artha girò la testa di poco, lanciando un veloce sguardo alla figura che parlava da sotto la coperta.La sua espressione mutò per un attimo ed un sorriso fugace comparve sul suo volto, ma subito dopo si spense ed egli tornò con gli occhi della nostalgia a scrutare l’orizzonte.
Si sedette incrociando le gambe ed accucciandosi un po’ più vicino al mucchio di legna, sterpaglie e sassi che le agili mani della figura sotto la coperta cercavano invano da ormai più di un’ora di trasformare in un fuoco.
– Fa un freddo da draghi bianchi di notte ed il sole è già quasi tramontato, dannazione!
Non capisco perché questa roba non si rassegni a prendere fuoco come le leggi della natura gli comandano! –
La figura proseguì il suo discorso in una lingua arcana ed incomprensibile, ma nei cui toni concitati era facilmente intuibile il senso delle imprecazioni.
D’un tratto un occhio grande ed azzurro fece capolino da sotto la coperta facendo scivolare fuori un ciuffo di boccoli color miele e guardò Artha con aria di rimprovero.
–Ehi, bambolone?! – disse dopo una pausa di qualche secondo – Pensi di continuare a fare la statua di sabbia ancora per molto, oppure mi dai una mano ad accendere il “nostro” fuoco?–
Artha sussultò come se fosse stato svegliato di sorpresa e, dopo essersi scosso la sabbia dai capelli, si accinse ad eseguire sul mucchietto di legna quei gesti che dopo un’infanzia nelle foreste dell’Ergoth erano istintivi come sbadigliare o grattarsi il naso.
Il fuoco divampò, combattendo fieramente contro il vento, e l’elfo costrui intorno ad esso un baluardo di rocce.
–Uli– gongolò con un sorriso sbruffone – Ti riesce meglio cucinare che accendere fuochi: perché non dai un’occhiata a come puoi rendere appetitosi quelle specie di conigli con le orecchie tonde che ho cacciato tra le roccie oggi pomeriggio? –
– Sì, e in alternativa perché non provi direttamente a buttarti nel fuoco, così almeno ti rendi utile a qualcosa!?– Esclamò una voce bassa e profonda proveniente da una figura addossata alle rocce.
Il volto dell’elfo mutò in una smorfia di disgusto mentre con la coda dell’occhio scrutò per un attimo impercettibile l’enorme sagoma che giaceva con la schiena contro un masso, con le gambe accavallate e le braccia incrociate, sicuro e rilassato come se quella fosse casa sua.
Artha ammirava la fierezza di Yankan, ma il suo modo di fare gli ricordava troppo momenti della sua storia passata che avrebbe voluto dimenticare: gli orchi e la sua prigionia.
L’elfo era giovane e presuntuoso quando decise di allontanarsi dal suo clan e pensava che il fatto di essere agile e veloce come una lince, come dicevano i suoi compagni, lo avrebbe sempre tolto dai guai.
– Il tuo destino è quello di proteggerci e di curarci!– gli aveva detto Kahruna, il vecchio stregone
– non di andare a farti ammazzare da un umano in un posto puzzolente e senza alberi! Io ho promesso al clan che ti insegnerò quello che so, e tu sarai amato e rispettato, Artha...un grande stregone, come me! –
Artha era affascinato dalla magia: era rimasto ore ed ore a guardare con aria estatica Kahruna compiere i suoi miracoli, ma rimanere avrebbe significato assumersi la responsabilità di passare la vita legato a quei luoghi, a quelle persone, senza possibilità di scegliere ... senza libertà.
Così aveva raccolto le sue cose e se ne era andato, per scoprire ben presto che la libertà non era poi così facile da mantenere anche fuori dal clan.
Una notte mentre viaggiava verso sud, aveva sentito un dolore acuto al collo, simile a quello della puntura di una vespa, e prima di rendersi conto che si trattava di un ago, portandovi la mano come per scacciare l’insetto, i suoi sensi si erano già annebbiati.
L’ultima cosa che aveva visto prima di perdere conoscenza era il volto di un goblin reso ancora più mostruoso dall’effetto del veleno: rideva con un ghigno grottesco mentre recuperava il dardo dal suo corpo.
Passò un tempo imprecisato prima che Artha si fosse svegliato e si rendesse conto di essere in catene:
era finito nelle grinfie di Bobrakgora “la mercantessa di schiavi” e della sua banda di goblin e orchi.
Fu marchiato a fuoco su di una spalla e per qualche stagione fu costretto a lavorare sottoterra insieme ad altri schiavi alla costruzione di un dedalo di gallerie e stanze fortificate che l’elfo aveva calcolato si estendessero per più di 20.000 passi.
Le sue giornate, o nottate, dato che non era stato più in grado di distinguerle, erano scandite dalle scudisciate dei carcerieri che lasciarono un segno indelebile nella sua anima e sulla sua schiena.
Un giorno, mentre in uno dei cunicoli più remoti consumava uno dei pasti a base di funghi e carne marcia che era costretto ad ingurgitare per non morire di fame e di fatica, aveva sentito avvicinarsi nei corridoi il rumore di passi di corsa:
– due persone... – aveva calcolato – sicuramente goblin, considerate le imprecazioni...–
Fu sorpreso nel veder arrivare, prima degli individui che si aspettava, un kender che correva come un lampo senza provocare alcun rumore.
–Prendi!– disse la piccola figura lanciandogli contemporaneamente l’estremità di una corda ed una mazza d’osso.
Artha agguanto al volo la fune, intuendo immediatamente il progetto del suo nuovo amico.
Con un gesto acrobatico il kender saltò in direzione dei carcerieri facendoli inciampare prima che essi si rendessero conto del suo dietro–front, e pochi secondi dopo erano storditi e legati assieme.
Il goblin ubriaco, lasciato di guardia ad Artha ed ai suoi compagni, sì alzo di scatto, ma l’alcool e una testata dell’elfo lo rimisero subito a dormire.
–Piacere, Arian Cheddartoe da Kendermore.–
disse il kender mentre con disinvoltura armeggiava intorno agli anelli di ferro che tenevano le gambe di Artha legate assieme con una catena.
– Avrei tante cose da raccontarti, ma al momento sono un po’ impegnato con il lavoro... che ne dici di aiutarmi? –
–Se la mia conoscenza del “mestiere” è sufficiente, mastro Arian ...– rispose l’elfo
– Ah, serrature di burro.. cervelli da Goblinoidi: – sussurrò tra se e se il kender facendo scattare i blocchi di metallo e liberando il Kagonesti – non ci si diverte neanche un po’ ad aprirle!
Mestiere, dicevi?
Si tratta di fuggire, caro il mio elfo selvaggio...e mi dai l’aria che ti riesca bene...
o almeno lo spero, considerati i latrati dei cani che sento in lontananza... –
In effetti l’abbaiare di numerosi mastini faceva eco per i corridoi e si stava avvicinando.
L’elfo si massaggiò per pochi attimi le caviglie tra le mani e poi balzò verso i goblin storditi, sfilando ad uno dei due la spada corta ed il pugnale.
Il suo piccolo amico lo aveva fatto prima di lui con l’altro carceriere.
Fu in quel momento che Artha si rese conto del baccano che stavano facendo gli altri schiavi, incitando la coppia e chiedendo di essere liberati.
Voltò per un secondo la testa verso di loro e gli balenò un idea folle.
–Liberali, mastro Cheddartoe! – gridò al kender, indicando gli altri schiavi, e si lanciò urlando nei corridoi da cui sarebbero arrivati i mastini.
Arian, che stava già cercando una via di fuga nella direzione opposta ai latrati, ebbe un sussulto e sgranò gli occhi – Che mi venga...!– esclamò, poi scosse la testa sorridendo. – Tu sei matto come un kender, caro mio! – Intanto le sue abili mani si accingevano a liberare un grosso e nerboruto umano biondo.
Artha corse incontro ai cani ed ai loro padroni con il cuore talmente in gola che gli sembrava di aver ingoiato intera una pesca acerba.
Sentiva formicolare la schiena e le mani dalla paura, ed in quel momento avrebbe voluto essere un kender per non conoscere quella sensazione.
Ciò nonostante avanzò ed arrivato a pochi centimetri dal fiato puzzolente degli animali, balzò in avanti con un salto mortale, atterando sul petto di uno dei goblin che li teneva al guinzaglio e facendogli perdere l’equilibrio, poi continuò la sua fuga nella direzione opposta a quella da cui era venuto.
Il piano di attirare l’attenzione su di se aveva funzionato alla perfezione, dato che in men che non si dica gli sembrò che in ogni angolo ci fosse una guardia o dei cani pronti a catturarlo.
– Merda, merda, merda! – esclamava ansimando ad ogni svolta, costretto ad un acrobazia per invertire la direzione ed evitare i suoi inseguitori.
– Merda, merda, merda! – imprecò ansimando quando si rese conto che l’ultimo balzo era troppo corto per evitare che un suo polpaccio venisse afferrato da una sbavante corona di denti aguzzi.
Il dolore fu poco, a caldo, ed Artha ebbe il tempo di rendersi conto che i cani se lo stavano contendendo a strattoni come una succulenta bistecca.
Quella fu l’ultima cosa che ricordò, prima di svegliarsi delirando per la febbre e per l’acuto dolore delle infezioni.
Davanti a lui aveva il volto del goblin che lo aveva catturato:gli rideva in faccia con il suo ghigno grottesco...poi i contorni mostruosi del viso sfumarono, mutando in quelli del kender e l’elfo si rese conto che le risate erano troppo lontane per venire da lui.
Alzò il busto di scatto .
–Dove siamo? – disse spostando lo sguardo alternativamente sul kender e su un gruppetto di una ventina di uomini che parlavano e ridevano intorno ad un fuoco.
Gli sembrò di riconoscere tra gli uomini alcuni compagni di prigionia.
–Tra amici , al sicuro... e all’aperto, caro il mio ranocchio! – disse Arian – Per fortuna siamo riusciti ad arrivare prima che ti masticassero del tutto! – detto questo il kender rise di gusto e aggiusto i sacchi di yuta che facevano da giaciglio ad Artha.
–Siamo riusciti a fuggire!? La rivolta! Ha funzionato....dann....
e Bobrakgora? Ci inseguirà!
Ci farà inseguire per tutto l’Ergoth!–
Queste ultime parole uscirono come un rantolo di disperazione dalle labbra secche del Kagonesti.
– Adesso dormi, che ci penso io a te. Andiamo via... –
–Do..dove?!– chiese l’elfo mentre si lasciava sdraiare da Arian
–Ti piace il mare?– chiese il kender con tono paterno
– Mai visto. – affermò Artha chiudendo lentamente gli occhi.
– Ti piacerà...Ti porto a casa, amico mio: a Kendermore!. –

-o-

L’elfo stirò come un gatto le sue membra indolenzite e si riempì i polmoni di un aria densa e salata.
Aprì gli occhi e mentre lo sguardo si abituava ad un bagno di luce intensa, che da troppo tempo gli mancava, ascoltò i rumori:
lo stridire di alcuni uccelli mai sentiti che volavano rasente vicino alla sua testa, per poi tornare alti; il lamento di cordame teso al massimo e poi rilasciato più volte e di tavole di legno che si assestavano cigolando; forse il rullio di una carrucola... rumori nuovi, sconosciuti, che Artha faticò ad individuare e che esaminava perplesso nella sua temporanea cecità.
Gli occhi si abituarono al sole e con uno scatto il Kagonesti balzò in piedi buttando di lato le coperte che aveva addosso.Ma l’attimo dopo, istintivamente si acucciò sulle ginocchia e tentò di bilanciarsi con le braccia, mentre un espressione interrogativa gli si stampava sul volto: il terreno si muoveva! Anzi... oscillava!
Una risata roca e sguaiata, quasi simile al rumore che produce qualcuno che si strozza bevendo, attirò la sua attenzione e l’elfo noto un uomo grosso dai capelli corti e grigi ed un enorme faccione senza collo, che rideva con una bocca grande e sdentata.
L’uomo, che lo stava fissando, teneva una cima dalla metà, mentre con l’altro braccio sorreggeva il resto della corda, ordinatamente arrotolato.
Il tipo si volse dietro di se e gridò:
– Ahoi!”Rosicchia cime”, vieni sul ponte che il tuo amico “marmotta dei boschi” si è svegliato!–
– Dove siamo? – Chiese Artha assumendo di nuovo una posizione eretta per guardarsi intorno.
– Sei sulla “Luna Storta”, amico! – rispose l’uomo con l’aria di chi la sa lunga.
Fu allora che l’elfo spostò lo sguardo oltre il parapetto di legno e scorse un orizzonte infinito e blu, che si stendeva oltre la sua vista, aldilà della sua anima e dei suoi pensieri.
Senza nemmeno rendersene conto si avvicinò al parapetto, lo afferrò e si riempì gli occhi di quella sensazione di sgomento e di immensa libertà che era il mare.
Qualche minuto dopo una voce conosciuta dietro di lui lo distolse dalla sua estasi.
Benvenuto a bordo, amico mio – vedo che hai già conosciuto Jim “Barile” Svenson... vieni che ti presento al capitano e agli altri dell’equipaggio – disse Arian invitandolo a seguirlo con un cenno del capo.
Il Kagonesti lo seguì sul ponte, osservando con gli occhi sbarrati quell’ambiente di cui nulla sapeva, ma che presto sarebbe diventato la sua vita: Uomini diversi per colore ed usanze si muovevano su e giù per le funi, le vele, il ponte come coordinati perfettamente in un rituale di gesti precisi in cui ognuno sembrava conoscere la posizione e le azioni dell’altro.
Arrivò davanti al timone e lì noto un’uomo alto, magro con le sopracciglia e la barba folte e rosse, cui un cappello a larga tesa non riusciva a coprire le orecchie a punta, evidente segno di una qualche parentela elfica.
Lasciò il timone ad un membro dell’equipaggio e si fece avanti.
– E vediamo quale rifiuto di cambusa ci ha portato “Rosicchia cime”, dannata la marea! – esordì l’uomo squadrando Artha dalla testa ai piedi , con uno sguardo sospettoso ed arcigno, esaminandolo come si fa con un cavallo ad una fiera.
– Qual’è il tuo nome, topo di sentina? – chiese abbassando la voce e guardandolo di sbieco
– Artha, Artha Mael ...la lince, signore...–
– Signore un corno, per la lisca di merluzzo di tua nonna!!! – gridò in faccia all’elfo facendolo sussultare – Capitano mi devi chiamare... capito?! Capitan “Barbadifuoco” Duncan! – Poi riprese a parlare con voce calma: – Un gattaccio, dunque...un gattaccio rognoso...uhm – disse pensoso voltandosi di scatto e facendo due passi, per poi rivoltarsi altrettanto di scatto nella direzione dell’elfo – Per cui, “Rubasardine”, – L’equipaggio mormorò perché sapeva che da allora quello sarebbe stato il nome di Artha sulla “Luna Storta” – vorresti diventare parte della ciurma, eh? –
– Ehm?– fu l’unico suono perplesso che uscì dalla bocca del Kagonesti finché Arian non ruppe il silenzio e l’imbarazzo dell’elfo.
– È veloce, agile e coraggioso, Capitano! Ha sbaragliato dieci, no...venti guardie con feroci mastini infernali prima di...ehm... e poi ...–
– Sì, ma cosa sa fare? Mh? –Chiese il capitano guardando obliquo il kender
– Beh, per ora sa...sa ... beh, non è un marinaio, Capitano...ma gli insegnerò: gli devo la vita... –
– Certo che gli devi la vita!!!–Urlo di nuovo “Barbadifuoco” – Se tu la smettessi di ubriacarti come un polpo e di cercare rogne con donnaccie fuori dal porto non finiresti in mano agli schiavisti!!!–
– Ma...la missione era finita...Capita...– Cercò di giustificarsi Arian.
–Tu, ci sono un secchio e delle spugne in coperta:.voglio vedere splendere il mio ponte entro sera! – disse il capitano rivolto all’elfo, interrompendo il kender.
–Sì, Capitano!– Rispose prontamente Artha cercando disperatamente di capire dove diavolo fosse la “coperta”. Arian scosse la testa e gli indicò la botola.
La “Luna Storta” era un galeone che faceva prevalentemente quel tipo di trasporto che nessun altro voleva fare: portare merci illegali o pericolose, trasportare intrepidi avventurieri in posti assurdi e sconosciuti, passare acque poco sicure per permettere in gran segreto a personaggi altrettanto segreti di raggiungere posti segreti.
Per questo attraversava i mari più diversi e approdava ai porti più sconosciuti e per questo era dotata di tutte le difese necessarie alle frequenti battaglie che era costretta ad affrontare sia in mare, sia una volta gettata l’ancora.
L’equipaggio era quasi tutto fisso, anche se talvolta venivano ingaggiati in porto specialisti per la missione o uomini di fatica, laddove necessario.
Coloro che avevano fatto della “Luna Storta” la loro vita, portavano tutti un tatuaggio distintivo: Un àncora a forma di luna.
Barbadifuoco la aveva sul palmo della mano, Arian sul petto...ed Artha se la fece tatuare proprio sulla fronte.
Il capitano, scoprì ben presto, era un mezzelfo saggio e giusto, a dispetto dei modi bruschi; l’equipaggio lo chiamava in segreto “Il Carota”, invece che “Barbadifuoco” come lui pretendeva.
Si vociferava che la madre fosse un elfo del mare e che egli fosse stato raccolto neonato da un mercantile mentre vagava galleggiando su di un’enorme conchiglia.
Qualcuno mormorava addirittura che fosse capace di respirare sottacqua, ma nessuno aveva così tanta confidenza o lo aveva visto così ubriaco da poter chiedere conferma di quele informazioni senza avere paura delle sue reazioni violente.
“Barile” Svenson era leggendario come marinaio esperto del mare e delle sue creature, oltre che avere una caratteristica non comune: generalmente era un uomo bonario e scherzoso ma chi lo aveva visto durante una battaglia aveva impresso nei ricordi il suo volto trasfigurato in quello di una bestia sanguinaria e crudele dalla forza sovrumana, che brandiva un ascia bipenne alta quanto lui.
Arian “Rosicchiacime” Cheddartoe era il cambusiere della “Luna Storta” ed Artha si rese conto che, oltre essere lo scassinatore ed il ladro migliore che egli conoscesse era anche un cuoco notevole.
Un altro personaggio fu tra quelli che elfo frequentò di più tra la ciurma: Yuma “ Cartapecora” Kadhael, il nostromo, un mago che prestava i suoi servigi sulla “Luna Storta” in cambio di protezione e di un luogo dove poter portare avanti i suoi studi.
Era un uomo vecchissimo con un occhio solo, dalla pelle scura estremamente rugosa e bruciata dal sale e dal sole ed aveva uno studio all interno del galeone dove nessuno poteva entrare.
Era anche un grande esperto della storia di Krinn e delle leggende antiche, ben propenso a saziare la curiosità di Artha su molte cose, tranne che sulla sua storia passata.
Fu da lui che il Kagonesti imparò a scrivere.
Ben presto Artha assunse l’incarico di incursore: Scendeva a terra come un ombra per controllare che tutto fosse tranquillo oppure scivolava in mare per poi risalire sulla nave nemica e sabotarla o rubare qualche cosa di importante e ben custodito.
Doveva ad Arian tutto quello che sapeva sul “mestiere”, come lo chiamavano, e le loro “vacanze” a Kendermore, dove Artha aveva preso l’abitudine di accompagnarlo nelle sue visite famigliari, erano sempre molto educative.
Fu durante un’incursione a Est del Mare di Sangue, che l’elfo naufragò, perdendo le traccie della sua nuova famiglia:
Sulla “Luna Storta” c’erano in incognito dei cavalieri della Corona di Solamnia ed il suo compito, quella volta, era verificare se a bordo di un altra nave, che avevano avvicinato mentre era ancorata in una baia nascosta, ci fosse un certa maga dalle vesti nere: Vikanis era il suo nome.
I cavalieri gli avevano dato un medaglione che sarebbe dovuto servire a scoprire eventuali illusioni con cui la maga poteva proteggersi.
Si trovava già in coperta sulla nave bersaglio, quando qualcosa di simile ad un’esplosione scosse il vascello, seguita da altre simili. Artha si distrasse e qualcuno, sceso dal ponte, lo scoprì.
Il Kagonesti non riuscì ad evitare di combattere, mentre la nave imbarcava acqua e si inclinava.
Poi un esplosione più forte la spezzò in due e l’elfo fu sbalzato fuori in mare, agitato da una strana improvvisa tempesta, e perse i sensi.
Quando rinvenne, abbracciato ad un pezzo di scafo rotto, della “Luna Storta” e dell’altra nave non c’era più traccia.
Andò alla deriva per tre giorni e tre notti.
Per tre giorni e per tre notti ringraziò il dio del mare di non averlo fatto affogare o divorare, ma la sete, la stanchezza ed il freddo si facevano insopportabili.
Stava per abbandonarsi al suo destino e lasciarsi scivolare nelle profondità quando si sentì sospingere da qualche cosa appoggiato al suo ventre: un delfino.
Rise di felicità in maniera convulsa, mentre l’animale lo trascinava via, poi abbracciò il muso del cetaceo e si lasciò trasportare.
Il delfino nuotò per diverse decine di miglia prima di arrivare ad una spiaggia deserta, dove erano stese ordinatamente alcune nasse.
Fu lì che, a pochi metri dalla riva, il suo corpo mutò, assumendo le sembianze di una giovane donna di razza elfica.
Artha era troppo sfinito per stupirsi o per distinguere quegli eventi dai deliri della fame e della sete, ma ricorda ora quell’apparizione come una delle cose più belle che la vita gli avesse offerto: sapeva degli elfi del mare dai mille racconti da bettola dei marinai, ma mai avrebbe sperato di averne una come salvatrice.
La ragazza lo trascinò a riva e lo sdraiò in secca.
L’elfo non ebbe modo di resistere quando lei gli sfilò dal collo il medaglione dei cavalieri e tornò a tuffarsi in mare.
La spiaggia, Artha lo avrebbe scoperto quache ora dopo, si trovava vicino alla cittadina di Cuda e fu proprio lì che, dopo essersi rimesso in sesto con un uso appropriato del “mestiere”, decise che sarebbe stato meglio imbarcarsi sulla prima nave disponibile per evitare che le sue attività professionali destassero troppe attenzioni.
Trovò un ingaggio come vedetta sull’ “Anemone Nero”, una nave più che ovviamente pirata.
Gli sembrava poco dignitoso, ma un certo nervosismo di alcuni abitanti del luogo, che cominciavano a sospettare che fosse stato lui a svuotagli le tasche e la casa, lo convinse che non era il caso di sottilizzare.
Ben presto l’equipaggio ed il capitano, tale Gorm Essex, si resero conto che l’elfo aveva una certa attitudine a fare il pirata a tutti gli effetti, piuttosto che la vedetta, e così ben presto divenne un membro attivo della ciurma.
Gorm sembrava un gentiluomo e rispettava un certo codice d’onore, sebbene fosse un pirata:
Non uccideva chi si arrendeva, lasciava sempre i prigionieri in mare con una scialuppa e abbastanza cibo ed acqua per tornare a terra, rispettava donne e bambini.
Così per un po’di tempo l’incarico sembrò acccettabile ed Artha scorrazzò in mare con un branco di avanzi di galera, depredando navi commerciali di passaggio, nella speranza di ritrovare la “Luna Storta”, invece di scappare alla prima occasione come aveva progettato.
Un giorno, durante un incontro di affari tra pirati su di un isola detta il “Guscio di Riccio” sentì parlare di una nave armata fino ai denti e di un capitano mezz’elfo dalla barba rossa fuoco, che era stato capace di tenere testa all’Ammiraglio Krug “La Murena”, uno dei più feroci bucanieri del tempo.
L’equipaggio del mezzelfo era riuscito ad affondare una delle navi di Krug, ma uno dei capitani del pirata era riuscito a sfregiargli una guancia in combattimento, prima di farselo sfuggire.
Artha non era sicuro che quei racconti si riferissero alla “Luna Storta” ed aveva imparato che doveva soppesare bene i particolari delle descrizioni dei marinai, ma decise comunque che la cosa migliore per tornare sulle traccie della sua “vera nave” fosse quella di cercare questo Krug e magari di riportare qualche trofeo al suo “vero capitano”.
Così prese informazioni e dopo un paio di imbarchi riusci ad individuare la posizione de “La Murena” ed a farsi assumere nella sua ciurma.
Le navi di Krug “La Murena” erano cinque ed egli compiva scorrerie sia in mare, sia su villaggi e cittadine a terra, con una ferocia ed una violenza inaudite.
Artha non vide mai il suo ammiraglio, ma imparò a temerlo e disprezzarlo anche dalle punizioni che faceva infliggere con frequenza dai suoi ufficiali a chi falliva o lo deludeva: Se andava bene ti frustavano per poi salarti le ferite, altrimenti c’era il giro di chiglia.
Nonostante questo l’elfo era determinato nella sua missione: riuscì a venire a sapere che in effetti il racconto del pirata al “Guscio di Riccio” corrispondeva a verità, ma non riuscì ad avere conferma del fatto che la nave implicata nella vicenda fosse veramente la sua.
Quello che invece scoprì di interessante fu che, tra gli altri tesori, Krug ne possedeva uno che avrebbe reso sicuramente “Barbadifuoco” fiero di lui:
si trattava di un oggetto, forse una chiave, capace di aprire qualsiasi porta e qualsiasi serratura, anche quelle chiuse magicamente.
Il pirata la custodiva, insieme a molti altri averi, in una grotta segreta su di un’isoletta a Sud di Mithas detta “Culo di Rospo“.
Il lavoro di diplomazia di Artha fu lungo, ma alla fine riuscì ad entrare nel gruppo di persone che venivano mandate con una delle navi a depositare i tesori nella grotta.
La spedizione era guidata da un fedele vecchio capitano di nome Akel, scuro di pelle e di animo e marziale di modi, il cui unico difetto era amare moltissimo l’alcohol... ed il Kagonesti lo sapeva.
L’elfo si era procurato da un losco mercante una bottiglia di un liquido magico in grado di addormentare un uomo per alcune ore anche con un paio di goccie.
Non appena arrivarono al “Culo di Rospo” ne divise l’intero contenuto dentro a tutti barili di bevande, sapendo bene che si sarebbero fermati lì fino alla notte per scaricare il carico con il buio.
lI sole calò ed una nebbia simile a fumo di pipa si alzò intorno all’isola, ma l’equipaggio dormiva già sotto l’effetto della pozione.
Così Artha sfilò dalla cintura di Akel la chiave a forma di zampa di rospo che sapeva essere usata per aprire la grotta e scivolò in mare con una scialuppa, non prima di aver provocato con un ascia una grossa falla nella stiva ed aver messo fuori uso tutte le scialuppe.
Aveva una mappa rubata nella cabina del capitano, così non gli restò difficile trovare l’entrata del nascondiglio.
Con un sorriso soddisfatto noto una fessura a forma , ovviamente, di zampa di rospo, controllò se non ci fossero trappole e, ridendo di scherno per come aveva portato l’impresa facilmente a termine, inserì la chiave nella serratura.
Artha fece un balzo indietro quando si rese conto che la roccia davanti a lui si animò e mutò nel muso di un rospo, che lo osservava con gli occhi accesi di un bagliore verdastro.
Attrhua bankr klekl? – chiese il rospo di pietra con una voce gutturale e cavernosa
Eh?!– rispose l’elfo istintivamente
Attrhua bankr klekl, Oroisks? –
Oh, oh... merda di Narvalo!...- imprecò Artha tra i denti, rendendosi conto che la chiave non doveva essere l’unico requisito per entrare.
Mhpf! Den attrhua klekl...mhpf! – disse la testa di rospo con tono scocciato ed uno sguardo di disprezzo, prima di sputare un bolo verdastro sul terreno ai piedi dell’elfo.
Immediatamente il terreno sotto i piedi di Artha si trasformo in fanghiglia e dal fango in cui l’elfo cominciava a sprofondare emersero prima due, poi quattro , poi sei mani scarnificate e putrefatte.
Un manipolo di cadaveri viventi stava liberando il proprio corpo dal terreno producendo un rumore viscido e sinistro come quello di una mano che rovistasse in una cesta di pomodori marci, mentre un odore nauseabondo si spandeva nell’aria, portato anche dalle ali di uno stormo di corvi non morti che erano scesi dalle alture e adesso gracchiavano intorno alla scena, cercando di beccare Artha.
Mentre staccava la chiave dalla serratura e se la ficcava in tasca, con orrore gli balenò l’idea che, se non fosse riuscito a fuggire, sarebbe andato a far compagnia all’allegra combriccola di pirati morti che cercava in quel momento di farlo divertire a colpi di coltello e morsi sul collo.
Ad Artha però non piacque la festa e, staccando di netto la testa ad uno ed un braccio ad un altro con un gesto acrobatico, sprofondò il piede nel torace di un terzo che si aprì, rompendosi come un uovo marcio.
I morti viventi non erano poi lenti come il Kagonesti se li aspettava e riuscirono a ferirlo con una pugnalata alla spalla prima che riuscisse a divincolarsi ed uscire dalla pozza di fango.
Scappo a gambe levate verso la scialuppa con il volo dei corvacci dietro, seccandone uno di tanto in tanto, quando riusciva a farsi troppo vicino.
Spinse la barca in mare, saltò dentro, issò il piccolo albero con la piccola vela che aveva predisposto per la fuga e, dando il colpo di grazia all’ultimo uccellaccio, si mise a remare energicamente per prendere il largo.
Una luna “storta” era nel cielo, lontano da lui, e rischiarava la notte dando alla superficie del mare l’aspetto di un lucido mantello di raso.
Nonostante il dolore alla spalla Artha remò a lungo, anche perché aveva sopravvalutato le sue capacità di marinaio e la vela risultava simile ad un indomabile cavallo selvaggio.
All’alba era già parecchio lontano e stava immaginando divertito le bestemmie dei marinai della “Salamandra”, così si chiamava la nave di Akel, arenata su di un fianco e con la stiva piena d’acqua.
Cominciava ad essere stanco, quando in lontananza vide un vascello e riconobbe le insegne della “Compagnia delle Spezie”.
Fece di tutto per farsi notare ed alla fine ci riuscì e venne recuperato e portato a bordo, anche se nel sospetto totale dell’equipaggio, poiché acuni avevano notato le insegne della flotta della “Murena” sulla scialuppa.
Ai marinai raccontò di essere stato preso prigioniero dai pirati di Krug e di essere riuscito a fuggire con una loro scialuppa e a conferma di questo mostro la ferita sulla spalla, e le cicatrici delle frustate.
Fortunatamente uno di loro conosceva la “Luna Storta” per esservi stato imbarcato una settimana e riconobbe il tatuaggio di Artha, così la storia sembrò plausibile a tutti.
Il vascello faceva rotta verso sud-ovest e fu lì che Artha sbarcò.